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2013-11-11

ANALISI : Si riacutizza la guerra fredda nella penisola coreana: nel nome del padre


“Siamo ritornati al 1950”, mi dice Ko Un, il più grande e prolifico poeta della storia della letteratura coreana, che ha pagato con anni di carcere a sud del 38° parallelo il suo impegno contro le dittature del suo paese. Nemici come alla vigilia della disastrosa guerra di Corea, i nuovi leader della RPDC (Repubblica Popolare Democratica di Corea) e RdC (Repubblica di Corea), Kim Jong Eun e la signora Park Geun-hye si stanno esibendo in show di forza pericolosi.  
Entrambi sono figli d’arte, entrambi eredi di dittatori. 
Il trentenne Kim, al vertice della RPDC dalla morte del padre, Kim Jong Il, alla fine del 2011, è il terzo della dinastia che regna ininterrottamente sulla RPDC da 66 anni. 
Fin dall’inizio ha cercato di presentarsi, sia nell’aspetto sia nelle promesse (difesa ad oltranza contro l’imperialismo e benessere economico) come l’alter ego del nonno, l’amatissimo fondatore della dinastia, Kim Il-song. 
La sua politica mantiene la priorità perseguita dal padre: lo sviluppo del progetto nucleare per ovviare a una corsa agli armamenti convenzionali che non può permettersi dato il pessimo stato delle finanze del paese stretto da sessant’anni di sanzioni. 
La seconda priorità del giovane Kim è lo sviluppo economico (nonno docet) con l’aiuto degli investimenti della Cina che resta il suo unico alleato, soprattutto per motivi di sicurezza nazionale.  
La signora Park, membro del partito conservatore dal 1997, in carica dal febbraio 2013 è la figlia sessantenne di Park Chung-hee, il dittatore che costruì, con pugno di ferro, l’economia sudcoreana: con costi sociali elevatissimi. Alle spalle Park ha una storia tragica segnata dalla morte della madre in un attentato nordcoreano e dall’assassinio del padre per mano del capo dei sui servizi segreti. 
Il suo quinquennato comincia proprio male e conferma le preoccupazioni dell’opposizione il cui candidato, Moon Jae In, ha perso per uno stretto margine le presidenziali. A pochi mesi dall’insediamento del primo presidente donna, scoppia lo scandalo dei servizi segreti (National Intelligence Service, NIS). 
Il coinvolgimento dei NIS nella sua elezione nel dicembre 2012 (cui la presidente si è detta estranea) e il pretestuoso linciaggio morale, con relative dimissioni, del Pubblico Ministero che si stava occupando del caso, hanno fatto scendere in piazza non solo il partito di opposizione e le numerose associazioni civiche del paese, ma anche le comunità religiose: cattolici, protestanti e buddisti zen. Tutti sostengono che il sistema di controllo capillare sui cittadini, che si è evidenziato col bombardamento mirato di decine di migliaia di falsi messaggi via internet e twitter e fantasiosi dossier contro il candidato progressista e a favore di Park, sta facendo arretrare il paese di trent’anni: all’epoca del dittatore Park. Ultimo grave atto del governo che ha mobilitato l’intellighenzia del paese: la petizione alla Corte Costituzionale per lo scioglimento di un piccolo partito di sinistra, che ha sei membri in Parlamento, accusato di fomentare una rivoluzione sociale in linea con il programma del nemico nordcoreano. 
E’ improbabile che la prospera e ultratecnologica Rdc permetta ulteriori vulnus alla democrazia conquistata dopo tante lotte, ma il pericolo esiste. 
Del resto, come sostiene Ko Un, entrambi i paesi nati dalla guerra fredda e dalla divisione non voluta dal popolo coreano, continuano a trarre la loro legittimità dall’esistenza stessa del vicino-nemico. Lo spionaggio è di casa a Seoul, giustificato negli ultimi anni dall’arrivo di 27.000 profughi nordcoreani che, in maggioranza, sono in cerca di un futuro migliore; di sicuro ci saranno agenti nordcoreani infiltrati, dicono, e non c’è da dubitarne, ma i “rifugiati” (così li chiamano al sud) sono trattati con sospetto e hanno poche possibilità di mobilità sociale, a meno non siano personaggi eccellenti. La stessa logica anti comunista assicura la permanenza della famigerata Legge per la Sicurezza Nazionale, varata nel 1948, che permette l’arresto per intelligenza con il nemico anche in casi assai dubbi. La propaganda contro il regime dei Kim se pure più blanda rispetto a quella nordcoreana, è ben presente anche nella RdC. 
La parentesi di distensione fra le due Coree del decennio 1997-2007, voluta dai due presidenti progressisti della RdC, è ormai un “sogno lontano”, dice ancora Ko Un.
La signora Park, consolida la cesura, già iniziata dal suo predecessore (il conservatore Lee Myung-bak nel 2008), con la politica della mano tesa (sunshine policy). Le relazioni intercoreane si sono ulteriormente deteriorate.
La Corea del nord non è irrazionale e non è stata guidata da un dittatore più folle e imprevedibile dell’altro, come vuole certa stampa. I nordcoreani temono davvero un attacco nucleare preventivo da parte americana con l’appoggio logistico di Seoul e di Tokyo. E’ per questo che il giovane Kim ha alzato i toni retorici in occasione delle vituperate esercitazioni militari congiunte Usa/RpC. Gli americani hanno schierato una potenza militare impressionante con i B52 e persino B2, gli aerei invisibili, per simulare un attacco contro Pyongyang. 
Malgrado le precedenti sanzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu accumulate dal padre lo vietassero, il giovane Kim ha compiuto un test missilistico (fallito), e un test nucleare (riuscito) e ha ripreso la produzione di plutonio. In primavera la retorica del regime, particolarmente virulenta, è esplosa nell’esplicita minaccia di mettere a ferro e fuoco non solo Seoul, ma per la prima volta anche Washington.
La crisi è culminata con la chiusura dell’area industriale di Kaesong e l’espulsione dei colletti bianchi sudcoreani che gestiscono 150 piccole e medie imprese del sud e danno lavoro, dal 2001, a 52.000 operai nordcoreani. E’ una delle poche iniziative congiunte rimaste dall’epoca del disgelo.

Alla complessità dei rapporti intercoreani si aggiungono gli interessi divergenti delle grandi potenze che circondano la Corea e che traggono vantaggio dalla divisione del paese. 
Stati Uniti e Cina giocano una partita importante nella penisola. La Cina non ha mai nascosto che appoggia il mantenimento dello status quo e, fra le righe, sostiene il regime per il timore che scoppi una guerra a tutto vantaggio degli Stati Uniti. 
L’instabilità al suo confine la preoccupa di più del problema nucleare di Pyongyang. Ha sottoscritto le sanzioni contro la RPDC dopo i 2 test nucleari sotto il regime di Kim Jong Il e lo stesso ha fatto dopo il terzo test voluto dal figlio, Kim Jong Eun. La Banca di Cina, di proprietà dello stato, ha anche sospeso le transazioni con la Banca per il commercio internazionale di Pyongyang seguendo a ruota la decisione dell’amministrazione Obama.
Però ha adottato le contromisure per prepararsi a ogni evenienza. Le infrastrutture finanziate nella RPDC al confine fra i due paesi (autostrade, ponti, connessioni con i treni veloci) si possono interpretare come rapidi canali di ingresso in caso di sommosse, di implosione del regime e relativo intervento di Stati Uniti e Rdc.
Il commercio bilaterale con la RPDC continua ad aumentare e gli investimenti si moltiplicano. A Pyongyang, che è sempre stata la vetrina del regime, i nuovi palazzi e i centri commerciali, pieni di articoli di ogni tipo, soprattutto di lusso, sono in mano ai cinesi; i porti dell’est sono gestiti dai cinesi e frequentati dalle navi cinesi. In molte miniere i cinesi estraggono i metalli da importare in patria. L’importanza della Corea del nord nella politica estera del più grande e dinamico paese dell’Asia Orientale è testimoniata dal fatto che la formulazione della politica nordcoreana, considerata particolarmente complessa e sensibile nella politica internazionale di Pechino, è in mano all’Ufficio di Collegamento del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese e all’Esercito di Liberazione Nazionale. Mentre il Ministero degli Esteri svolge, in questo caso, funzioni soltanto esecutive. Un esempio: Wang Jarui, che è a capo dell’Ufficio di Collegamento del Partito, è stato a Pyongyang un numero di volte maggiore del suo omologo governativo, il ministro degli Esteri. Ottime e strette sono anche le relazioni fra i vertici delle Forze Armate dei due paesi. 
Questo spiega il dialogo mai interrotto con la RPDC e il rispetto dimostrato ai tre Kim dal top dell’establishment cinese. Sarebbe un errore pensare che l’adesione della Cina alle sanzioni ONU e alle sanzioni finanziarie americane dimostri una svolta nella politica nordcoreana di Pechino. 
Nulla di nuovo, sostiene il professore sudcoreano Jae Ho Chung: “si tratta di flessibilità tattica non di un nuovo orientamento strategico”.  Il governo della signora Park dovrebbe seriamente preoccuparsi non solo dei fratelli-nemici ma anche degli amici.